La vita di un ricercatore è fatta di attese. Nel mio lavoro in particolare possono passare mesi prima di vedere qualche frutto.
Con il sostegno di AIRC, studio i tumori rabdoidi maligni, una famiglia di rari tumori pediatrici aggressivi, caratterizzati dalla mutazione del gene SMARCB1, coinvolto in numerose funzioni cellulari.
A volte questo tumore resiste alla chemioterapia e per questo la mortalità è alta.
Io cerco di creare dei topini di laboratorio malati che ricordino il più possibile il tumore dei piccoli pazienti. L’obiettivo è studiarne approfonditamente i meccanismi in modo da trovare nuovi bersagli terapeutici che aiutino a combattere il tumore.
Studiare la malattia con animali di laboratorio è lungo e costoso. Implica trovare l’animale più adatto, inoculare il tumore, attendere che la si sviluppi: possono passare mesi solo per completare questi passaggi, e anni prima di osservare risultati tangibili, utili ai pazienti.
Quindi si aspetta. Ma aspettare è una parte bella del mio lavoro: è il momento in cui tocco con mano quello per cui ho studiato e passato le giornate a ragionare. D’altro canto c’è anche ansia e paura che quello che ho fatto non vada in porto o comunque non sortisca gli effetti sperati. Però, se uno è appassionato, curioso e se c’è la voglia di capire per curare, alla fine anche l’attesa è sopportabile.
Il posto in cui mi trovo, l’MD Anderson Cancer Center a Houston, è l’ideale per svolgere questo lavoro.
Ci sono arrivata quasi due anni fa. Avevo un grande desiderio di andare all'estero, ma sarei voluta rimanere in Europa, più vicina agli affetti e all’Italia. Poi è arrivata quest’occasione, in uno dei più importanti centri oncologici mondiali e non me la sono fatta scappare.
Per il futuro, la speranza è tornare in Italia, o quanto meno dall'altra parte dell’Atlantico.
Data di pubblicazione: 9 luglio 2018