I giorni tra l’8 e 9 marzo del 2020 rimarranno impressi nella nostra memoria: prima la Lombardia e alcune aree del Nord e poi tutta l’Italia entravano in lockdown. In quei giorni io, mia moglie e le nostre due bambine attraversavamo in macchina l’Italia per tornare a Roma dopo nove anni passati all’estero.
Partito dopo un dottorato all’Università di Tor Vergata, avevo trascorso gli ultimi anni alla Università di Cambridge, nel Regno Unito. Dal punto di vista professionale sono stati certamente anni importanti. Ma anche sul piano personale, dal momento che là sono nate le nostre bambine. Rispetto all’Italia, a Cambridge è più semplice conciliare lavoro e vita familiare, dato che l’ambiente è favorevole alla ricerca, multiculturale e inclusivo.
In quel periodo cominciavo a cercare opportunità per avviare un mio gruppo di ricerca. C’erano alcune possibilità nel Regno Unito, ma notai anche il bando Start-Up di AIRC. Mi colpì per com’era impostato. Il bando è infatti basato sui principi che guidano la carriera di ricerca anche nel mondo anglosassone: l’enfasi è sull’indipendenza dei giovani ricercatori che riescono a ottenerlo. A loro vengono messi a disposizione fondi adeguati e significativi, purché presentino un progetto competitivo e dimostrino anche capacità di leadership. Più che un semplice grant, sembrava un investimento che AIRC avrebbe fatto su una persona. Così ho partecipato al bando e ho avuto il privilegio di essere uno dei pochi vincitori.
Il ritorno in Italia ha però comportato qualche difficoltà, solo in parte legate alla pandemia. Non tanto per le bambine, che sono ancora sufficientemente piccole da aver percepito poco le differenze. Anzi, per loro è stata una gioia avvicinarsi ai nonni e alla famiglia. Piuttosto, per me e mia moglie all’inizio è stata un po’ dura.
Anche sul lavoro non è stato semplice. Il grant è iniziato ufficialmente a gennaio 2020, ma fino a maggio tutto è andato molto a rilento. Oggi finalmente, grazie al sostegno del dipartimento e dei colleghi, lavoriamo a pieno ritmo e il gruppo è al completo. È costituito, oltre che da me, da un ricercatore post-dottorato che è rientrato con me da Cambridge, da un altro reclutato in Italia e da due dottorandi messi a disposizione dal dipartimento in cui lavoro. Un altro aspetto importante è aver avuto la possibilità di entrare stabilmente a far parte del corpo docente.
Il progetto si concentra su un gene che ha un ruolo essenziale nello sviluppo del cancro, ma che ancora oggi, a quarant’anni dalla sua scoperta, è lontano dall’essere compreso pienamente. Si chiama p53 e per capire la sua importanza, basti pensare che è mutato nel 50 per cento circa di tutti i tumori. Un’anomalia che tocca il 90 per cento dei casi in alcuni tipi di neoplasie. Con il nostro lavoro vogliamo comprendere perché il tumore acquisisce una maggiore plasticità, cioè la capacità di evolvere, adattarsi allo stress e proliferare, quando si perde la funzione di p53. Stiamo cercando di capire come avviene questo processo: un’ipotesi è che p53 sia determinante nel controllare la stabilità epigenetica del tumore. La sua perdita, in sostanza, potrebbe far sì che si attivino regioni del genoma che normalmente dovrebbero essere “dormienti”. Da questo caos genetico potrebbe derivare la plasticità che consente al tumore di adattarsi ed espandersi.
Questa caratteristica, in grado di fornire un vantaggio al tumore, potrebbe tuttavia diventare anche un suo punto debole. L’instabilità legata ai difetti di p53 mette infatti in moto segnali cellulari che attivano il sistema immunitario. È possibile, quindi, ipotizzare approcci terapeutici che, sfruttando questi processi, stimolino la risposta immunitaria contro il tumore.
Il progetto sta procedendo celermente e mi aspetto che per la fine del quinquennio avremo ottimi risultati.
Fare ricerca, ma anche addestrare
Al termine del progetto mi piacerebbe essere riuscito a costruire un buon gruppo di ricerca, duraturo nel tempo, e che faccia soprattutto due cose. La prima è naturalmente dare un contributo rilevante alla conoscenza. La seconda, che reputo non meno importante, è addestrare giovani ricercatori a una ricerca non solo di qualità, ma anche aperta agli scambi internazionali. Vorrei che i ragazzi che lavoreranno con me acquisiscano i mezzi e la cultura per fare quello che ho fatto io: andare all’estero e tornare in Italia, non necessariamente perché si ha nostalgia di casa, ma perché da una parte e dall’altra ci sono opportunità che si è in grado di cogliere. E nella formazione di questa cultura, oltre che nel sostenere la ricerca, credo che AIRC stia dando un contributo importante.
Nato a Napoli nel 1982, si è laureato in Biotecnologie Farmaceutiche all’Università Federico II di Napoli. Dopo un dottorato in Biochimica e Biologia molecolare all’Università di Roma Tor Vergata, si è trasferito nel Regno Unito, al Medical Research Council di Leicester, dove è tornato dopo una parentesi di un anno in Belgio al Vlaams Instituut voor Biotechnologie della Ghent University. Dal 2018 fino a fine 2019 è stato ricercatore all’Università di Cambridge. Oggi è all’Università di Roma Tor Vergata, dove insegna Biochimica e ha avviato un proprio gruppo di ricerca grazie a un Grant Start-Up sostenuto da Fondazione AIRC.
Data di pubblicazione: 19 maggio 2021