Secondo l'Organizzazione mondiale della sanità (OMS) il fumo di sigaretta è la più importante causa di morte evitabile nella nostra società: ogni anno nel mondo a causa del tabacco perdono la vita più di 8 milioni di persone, delle quali 1,2 milioni non fumatrici, ammalate a causa del fumo passivo. Sempre secondo l’OMS, l’80 per cento circa degli 1,3 miliardi di fumatori nel mondo vive in Paesi a basso e medio reddito, e il fumo contribuisce così ad aggravare eventuali problemi di salute legati alla scarsità di risorse economiche.
Secondo i dati raccolti dal Ministero della salute, le vittime della sigaretta in Italia ogni anno sono circa 93.000. Nel 2023 il 20,5 per cento delle persone che vivono in Italia fuma, ovvero una persona su cinque. Secondo il comunicato dell’Istituto superiore di sanità (ISS) del 2023, in Italia ci sono quasi due milioni di fumatori in meno rispetto all’anno precedente. Si tratta di un dato in controtendenza, con la graduale crescita negli ultimi dieci anni che avrebbe raggiunto un picco nel 2022, successivo alla pandemia. Se sono di meno i fumatori, però, chi continua fuma sempre di più: la media del numero di sigarette al giorno è salita da 11,5 a 12,2, mentre un quarto dei fumatori supera la ventina. A preoccupare è anche l’estesa diffusione tra i ragazzi. Il 9,6 per cento degli studenti tra gli 11 e i 13 anni e il 36,6 per cento tra i 14 e i 17 fa uso almeno una volta al mese di sigarette, con una marcata preferenza per le sigarette elettroniche e i prodotti a tabacco riscaldato. Ancora oggi l’ISS stima che il fumo di tabacco sia il maggiore fattore di rischio, responsabile, solo in Italia ogni anno, di circa 43.000 morti per cancro e del 20,6 per cento di tutti i decessi tra gli uomini e del 7,9 per cento tra le donne. Provoca più vittime di alcol, AIDS, droghe, incidenti stradali, omicidi e suicidi messi insieme. Molti studi scientifici hanno infatti dimostrato che chi fuma tabacco rischia più degli altri di sviluppare almeno 27 famiglie di malattie, non solo tumorali, che diventano 50 e più se considerate in tutte le loro ramificazioni. Il fumo aumenta di circa 10 volte il rischio di morire di enfisema, raddoppia quello di avere un ictus e aumenta da due a quattro volte quello di essere colpiti da un infarto, danneggia la circolazione del sangue al cervello e agli arti e può favorire la comparsa di una disfunzione erettile nell’uomo. In generale, secondo l’OMS, il tabacco uccide circa la metà dei suoi consumatori.
Le sostanze cancerogene contenute nel fumo favoriscono lo sviluppo di tumori al polmone, che in 9 casi su 10 possono essere ricondotti a questa abitudine non salutare; ma stimolano anche in diversa misura i tumori del cavo orale e della gola, del pancreas, del colon, della vescica, del rene, dell’esofago, del seno, soprattutto tra le donne più giovani, e di alcune leucemie. Infine non bisogna trascurare l’impatto economico del fumo: nel solo 2012 l’OMS ha stimato costi pari a 422 miliardi di dollari, che corrispondono al 5,7 per cento circa della spesa sanitaria globale.
Ogni volta che si accende una sigaretta si introducono oltre 4.000 sostanze chimiche, almeno un’ottantina delle quali, secondo l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC), sono anche cancerogene. Con ogni boccata si inalano:
Si ritiene che i costituenti del fumo con maggiore potenziale cancerogeno siano l’1,3-butadiene, l’arsenico, il benzene e il cadmio. Il primo, pur essendo meno potente di altre sostanze, è considerato il più importante perché presente nel fumo di sigaretta in grandi quantità; l’arsenico è particolarmente pericoloso anche perché tende ad accumularsi nell’organismo e interferisce con la capacità di riparare i danni al DNA; il benzene è responsabile di una quota significativa (dal 10 al 50 per cento) delle leucemie provocate dal fumo; il cadmio introdotto fumando sigarette è in quantità tali da superare la capacità dell’organismo di neutralizzarne l’azione tossica.
Tra le sostanze radioattive è di particolare rilievo il polonio 210: un’analisi del contenuto di polonio radioattivo in sigarette di diverse marche diffuse in Italia ha dimostrato che in un anno, in media, chi fuma circa un pacchetto al giorno corre lo stesso rischio biologico che se si sottoponesse a 25 radiografie del torace. Questa sostanza infatti si deposita nei polmoni, esponendo questi organi ad altissime dosi di radiazioni ad alta energia che possono indurre mutazioni potenzialmente cancerogene nel DNA.
Come le radiazioni, anche molte sostanze chimiche contenute nel catrame di sigaretta danneggiano il DNA delle cellule, provocando mutazioni che possono stimolarne una crescita incontrollata. Il benzopirene, uno degli idrocarburi policiclici aromatici più studiati, tende per esempio a mettere fuori uso il gene che codifica per la proteina p53, una delle molecole più importanti per proteggere l’organismo dal cancro.
Gli effetti negativi di queste sostanze sono potenziati quando vengono assunte tutte insieme, come avviene quando si inala il fumo di sigaretta. Un esempio di questo effetto sinergico si ha, per esempio, con il cromo: agendo come una colla, fa aderire più saldamente le altre sostanze cancerogene al DNA, favorendo le mutazioni che queste possono provocare. Altri esempi sono l’arsenico e il nichel, che interferiscono con i meccanismi di riparazione del DNA, deputati a correggere gli errori a mano a mano che si verificano. In questo modo le interazioni fra le diverse sostanze amplificano i danni provocati sul materiale genetico.
Le sostanze cancerogene contenute nel fumo possono infine favorire lo sviluppo dei tumori in maniera indiretta, ostacolando i meccanismi di rimozione di altre tossine (per esempio distruggendo le ciglia delle cellule che rivestono le vie respiratorie, come fanno ammoniaca e acido cianidrico), o bloccando gli enzimi che le trasformano in sostanze meno pericolose, come fa il cadmio.
Non esiste una soglia di sicurezza sotto la quale il fumo non produce danni, anche perché le conseguenze tendono ad accumularsi nel tempo. Per questo, negli studi che indagano il legame del fumo con le varie malattie, si usa come unità di misura il “pacchetto-anno”, un criterio che tiene conto del numero di sigarette fumate in media ogni giorno ma anche della durata del periodo di esposizione. In altre parole, fumare mezzo pacchetto al giorno per due anni equivale a fumarne uno intero per un anno.
Le mutazioni prodotte dalle sostanze cancerogene, inoltre, si sommano ma ciascuna avviene in maniera casuale. Ciò significa che il rischio, con le mutazioni accumulate, aumenta con il passare degli anni, ma il tempo necessario a trasformare una cellula sana in una tumorale non è del tutto prevedibile. È stato calcolato che mediamente ogni 15 sigarette fumate si verifica almeno una mutazione e che consumando un pacchetto al giorno per un anno, possono verificarsi circa 150 mutazioni. In pratica ogni volta che si apre un nuovo pacchetto è come se si giocasse alla roulette russa. Facendolo con costanza invece i rischi diventano quasi certezze.
Ciò non significa che tutti i fumatori svilupperanno un tumore, né che la malattia non possa insorgere in persone che non hanno mai messo in bocca una sigaretta. Molti altri elementi, ereditari o ambientali, possono contribuire a proteggere l’organismo o viceversa a favorire lo sviluppo di un tumore. Tuttavia, non fumare (o smettere) è certamente uno dei passi più importanti che si possono fare per ridurre il proprio rischio personale di ammalarsi.
Non bisogna credere che condurre una vita per altri versi sana, come mangiare molta frutta e verdura o svolgere una regolare attività fisica possa bastare a compensare i danni provocati dal fumo. Nessuno di questi fattori, per quanto utili al benessere dell’organismo e alla prevenzione delle malattie, ha lo stesso peso del fumo di sigaretta.
Cominciare a ridurre il numero di sigarette quotidiane può essere un modo per abituarsi all’idea di smettere, ma deve essere la prima fase di un percorso che porta a zero il numero di sigarette quotidiane. Chi si limita solo a fumare meno torna al punto di partenza non appena si trova in una situazione di stress.
Il termine leggere (light, mild o low tar) si riferisce alla quantità di catrame presente nella sigaretta. Tuttavia è una definizione fuorviante, inventata dall’industria del tabacco per indurre a credere che questi prodotti siano meno dannosi. Le differenze tra sigarette light e non light sono in realtà minime e irrilevanti anche per quanto riguarda gli effetti sulla salute. L'idea che facciano meno male può spingere invece a fumarne di più e soprattutto riduce le probabilità che i fumatori decidano di smettere. Inoltre diversi studi scientifici hanno dimostrato che chi utilizza le cosiddette sigarette leggere fa boccate più lunghe e profonde. Di conseguenza il dosaggio delle sostanze tossiche nel sangue di queste persone non è inferiore a quello che si ritrova nei fumatori di sigarette più forti, né il loro rischio di ammalarsi nel tempo appare ridotto. I risultati di uno studio, presentati nel 2019 al congresso annuale dell’American Thoracic Society, dimostrano che non vi sono differenze, nell’incidenza di tumori polmonari, tra fumatori di sigarette light e ultralight e fumatori di sigarette standard. Per questo l’Unione europea nel 2003, e la Food and Drug Administration (FDA) americana nel 2010, hanno imposto di eliminare dalle confezioni le diciture e definizioni di leggere (mild, light o low tar) che erano ingannevoli per i consumatori. Studi condotti dopo l’introduzione di questi provvedimenti hanno tuttavia mostrato che, nonostante queste espressioni non fossero riportate esplicitamente sui pacchetti, i consumatori tendono a pensare che diciture come gold o silver, o le confezioni con colori più chiari corrispondano a formulazioni meno dannose. Ecco perché in molti Paesi le sigarette, siano esse leggere o forti, sono vendute in confezioni uniformi che le rendono meno appetibili. In Australia, per esempio, la legge al riguardo è stata introdotta nel 2012; in Italia, invece, i pacchetti di sigarette riportano dal 2016 le avvertenze combinate (testo e immagini) degli effetti del fumo sulla salute.
Se le sigarette leggere non sono più salutari, neppure il sigaro e la pipa sono alternative più sicure, anche se portano a inalare il fumo meno profondamente. Ciò riduce leggermente il rischio di tumore al polmone rispetto a quello di chi fuma sigarette, ma le probabilità di sviluppare la malattia sono comunque molto più alte che tra i non fumatori. Inoltre fumare sigaro e pipa favorisce lo sviluppo di tumori della bocca, della gola, dell’esofago e di altri organi come il pancreas.
Con l’espressione sigaretta elettronica (spesso abbreviata in e-cig, dall’inglese) si intende un dispositivo con cui inalare vapore che può contenere quantità variabili di nicotina. Questa raggiunge l’apparato respiratorio senza che ci sia combustione del tabacco, una delle cause principali dei danni associati all’abitudine al fumo. Le e-cig contengono in genere tra 6 e 20 mg di nicotina, in una miscela composta anche da acqua, glicole propilenico, glicerolo ed altre sostanze, tra cui gli aromatizzanti.
Si tratta di sostanze potenzialmente dannose. Il glicole propilenico è usato da tempo, per esempio nei fumogeni impiegati dall’industria del cinema e nei concerti pop, ed è considerato generalmente sicuro. Alcuni studi indicano però che l’inalazione prolungata può dare origine a irritazione delle vie aeree, tosse e in casi molto rari asma e riniti. Fra l’altro il riscaldamento del glicole propilenico e della glicerina può produrre formaldeide e acetaldeide, entrambi potenziali cancerogeni, anche se le quantità associate al consumo di e-cig appaiono modeste.
Anche sulla sicurezza delle sostanze usate per aromatizzare l’aerosol mancano dati nella letteratura scientifica. Per esempio il diacetile, un aroma molto utilizzato fra l’altro nel burro, sembra essere sicuro quando viene ingerito, ma è associato all’insorgenza di bronchiolite obliterante se viene inalato per lunghi periodi in alte concentrazioni.
Secondo uno studio i cui risultati sono stati pubblicati ad aprile 2017 su una rivista della Società americana di fisiologia, sono circa 7.000 i diversi composti aromatizzanti contenuti nelle sigarette elettroniche ancora non studiati dal punto di vista della cancerogenicità.
Al pari delle sigarette tradizionali, quelle elettriche sono una fonte di metalli tossici, come il selenio, il nichel e l’alluminio, che vengono rilasciate quando la combustione raggiunge temperature molto alte, attorno ai 1.000 °C. Questo può succedere in particolare se la sigaretta viene attivata quando il liquido è finito, perché si promuove la degradazione della bobina e il conseguente rilascio di metalli.
Oggi non si può considerare la sigaretta elettronica un’alternativa sicura al fumo di tabacco né per chi ha intenzione di smettere di fumare, né per chi non ha mai fumato. Negli ultimi tempi diversi studi hanno indicato che può essere molto dannosa, nonostante sia spesso percepita come innocua. Hanno contribuito a questa percezione errata la recente immissione di questo tipo di prodotto nel mercato, in Italia soltanto nel 2015, e la difficoltà di studiare gli effetti di migliaia di aromatizzanti molto diversi tra loro. Inoltre nel 2019 è stata classificata una patologia polmonare legata al consumo della sigaretta elettronica, chiamata EVALI, dall’inglese Electronic-cigarette or Vaping product use-Associated Lung Injury. È provocata dal rilascio di sostante tossiche nei polmoni e si manifesta con fiato corto, dolore al petto e tosse. Tuttavia occorreranno ulteriori studi per stabilire, tra le decine di migliaia di prodotti in commercio, inclusi i dispositivi e i liquidi usati nelle sigarette elettroniche, i loro effetti sulla salute e sul cancro. Bisogna tenere anche conto del fatto che di tali prodotti siamo già arrivati alla quinta generazione, che è completamente diversa dalla prima.
Sulla base delle evidenze scientifiche raccolte finora non è consigliato ricorrere all’utilizzo di sigarette elettroniche e a tabacco riscaldato per smettere di fumare. Secondo le linee guida dell’Istituto superiore di sanità (ISS) questi prodotti “non possono essere in alcun modo considerati uno strumento adatto a iniziare una terapia per la cessazione all’abitudine al fumo”. Lo ha dimostrato di recente anche uno studio prospettico guidato da Silvano Gallus, epidemiologo dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano sostenuto da Fondazione AIRC. Seguendo nel tempo più di 3.000 persone in Italia tra i 18 e 74 anni, è emerso che le sigarette elettroniche e a tabacco riscaldato non solo non aiutano a smettere di fumare sigarette tradizionali, ma inducono a cominciare a farlo sia chi non fuma sia gli ex-fumatori. I risultati di questo studio confermano dati meno recenti, come la revisione sistematica della letteratura scientifica sul tema, pubblicata nel 2016 sulla rivista Lancet Respiratory Medicine, che ha rilevato come i fumatori che consumano la sigaretta elettronica abbiano minori probabilità di superare la dipendenza da nicotina.
I prodotti a tabacco riscaldato o sigarette che non bruciano sono dispositivi elettronici che, diversamente dalle sigarette elettroniche, sono composti da foglie di tabacco lavorate. L’OMS li definisce prodotti a tabacco riscaldato (Heated Tobacco Products o HTP), mentre l’industria del tabacco tende ancora a chiamarli prodotti a tabacco riscaldato che non brucia, (Heat-Not-Burn tobacco products), perché l’acronimo (HNB) non ha la T di tabacco.
La sigaretta, inserita in un apposito bruciatore elettrico, viene scaldata ad alta temperatura (circa 350 °C rispetto ai 900 °C della sigaretta classica), ma non brucia direttamente. Si tratta di prodotti sviluppati dalle industrie del tabacco e note con diversi nomi commerciali.
Il vapore generato dal riscaldamento della sigaretta contiene gli stessi componenti chimici della sigaretta tradizionale, come la nicotina, il benzene e diversi particolati. Sebbene le concentrazioni siano inferiori possono lo stesso risultare rischiosi. Contengono inoltre altre sostanze tossiche o potenzialmente dannose non contenute nelle sigarette tradizionali, i cui possibili danni per la salute non sono ancora noti e sono oggetto di studio.
Secondo la nota informativa del 2020 dell’OMS “attualmente non vi sono prove sufficienti per dimostrare che i prodotti a tabacco riscaldato siano meno dannosi delle sigarette”. Gli HTP (Heated Tobacco Products) contengono infatti “sostanze chimiche che non si trovano nel fumo di sigaretta e che possono avere effetti sulla salute”. Inoltre più di 50 sostanze “nocive o potenzialmente dannose sono presenti in misura più elevata negli HTP rispetto alle sigarette comuni” e “alcune delle sostanze tossiche presenti in questi prodotti sono cancerogene”.
Infatti, secondo un rapporto dell’OMS, sebbene le temperature raggiunte dagli HTP siano più basse rispetto a quelle delle sigarette comuni, si generano comunque sostanze tossiche, di cui alcune non sono prodotte dalle sigarette tradizionali. Gli effetti sulla salute di alcune di esse sono stati sperimentati su animali di laboratorio, dimostrando che l’esposizione agli HTP porta a un rischio di sviluppare un tumore minore rispetto a chi consuma le sigarette tradizionali. Tuttavia le probabilità aumentano al crescere dell’esposizione. Per quanto riguarda il fumo passivo sprigionato dagli HTP, le evidenze scientifiche sono ancora poche al momento, ma i risultati finora suggeriscono che i rischi per la salute sono minori rispetto alle sigarette comuni, ma maggiori rispetto a quelle elettroniche. Infine, sostituire le sigarette tradizionali con gli HTP non è una scelta salutare, perché sono entrambi tossici.
Per ora mancano studi sufficientemente ampi e prolungati per comprendere tutte le conseguenze degli HTP sulla salute, perché le sostanze da valutare sono moltissime e gli effetti possono manifestarsi anche dopo anni di esposizione. Tuttavia le evidenze scientifiche odierne ne sconsigliano il consumo anche per chi vuole smettere di fumare le sigarette tradizionali.
È ormai stato ampiamente dimostrato che i danni del fumo si estendono anche a chi, per il fatto di vivere o lavorare insieme a uno o più fumatori, è costretto a respirare per anni sia il fumo emesso dai fumatori dopo che è stato inalato (mainstream smoke), sia quello liberato direttamente dalla combustione della sigaretta (sidestream smoke). Il fumo passivo aumenta almeno del 20 per cento il rischio di sviluppare un tumore al polmone nei non fumatori, oltre a predisporre a malattie cardiache, asma e altri disturbi. Il fumo passivo uccide ogni anno circa 1,2 milioni di persone, 65.000 dei quali sono bambini con meno di 15 anni, deceduti prematuramente.
I danni sono infatti particolarmente gravi nei più piccoli, dal momento della gravidanza a tutta la fase di crescita, quando l’organismo è in fase di sviluppo. I neonati esposti al fumo sono più soggetti alla SIDS (sudden infant death syndrome), la cosiddetta morte in culla nel primo anno di vita. Anche superato questo pericolo, i bambini che vivono con fumatori restano più vulnerabili alle infezioni polmonari e sono a maggiore rischio di asma.
I rischi del fumo passivo si corrono con le sigarette tradizionali, elettroniche e a combustione sia al chiuso sia all’aperto. Numerose ricerche scientifiche pubblicate negli ultimi 20 anni hanno dimostrato che l’inquinamento negli ambienti chiusi come case, uffici, bar, è più pericoloso di quello all’aperto. Ciò perché si trascorre in genere molto più tempo all’interno che all’aria aperta e perché, date le piccole dimensioni degli spazi chiusi, la presenza di inquinanti domestici, di cui il fumo di sigaretta può essere la fonte principale, porta le concentrazioni di gas e polveri a livelli molto più alti. Esiste inoltre il fumo di terza mano: deriva dall’effetto tossico delle sostanze liberate dalla combustione del tabacco che possono impregnare gli ambienti, in particolare i tessuti dei capi di abbigliamento o di arredamento, come tende, tappeti, copriletti o poltrone e divani. Gli studi sull’effetto cancerogeno di queste tossine sono meno numerosi rispetto a quelli sul fumo passivo. Tuttavia diverse evidenze mostrano quanto il fumo di terza mano possa portare a patologie e problemi cardiovascolari chiunque ne sia esposto con regolarità, compresi i bambini e gli animali domestici, soprattutto quando si sommano all’esposizione al fumo diretto e passivo.
Per la salute di tutti è quindi fondamentale che ci siano delle limitazioni per il consumo di sigarette. Secondo il rapporto dell’OMS del 2021 rendere i luoghi pubblici liberi dal fumo è stato efficace nel ridurre le nascite premature, l’asma e l’ospedalizzazione per infezioni del tratto respiratorio. Sulla base di queste evidenze, negli anni molti Paesi hanno adottato norme severe sul fumo nei luoghi pubblici e sui posti di lavoro, limitazioni che possono estendersi anche all’aperto. Ricerche condotte dalla Struttura di pneumologia dell’Istituto nazionale tumori di Milano hanno dimostrato che le concentrazioni di sostanze tossiche dovute al fumo possono essere molto significative anche nei locali all’aperto, in spiaggia o allo stadio.
Molte donne smettono di fumare in gravidanza, sapendo che il fumo è nocivo sia per la loro salute sia per quella del loro bambino. Il fumo riduce infatti l’apporto di ossigeno al feto. Inoltre, soprattutto dopo il terzo mese, crescono le probabilità di un aborto spontaneo, che il bambino sia poco vitale, sia sottopeso alla nascita oppure sviluppi altri problemi di salute. Inoltre le conseguenze del fumo in gravidanza si prolungano nel tempo: per tutto il primo anno di vita il bambino corre un maggior rischio di morte in culla e negli anni successivi sarà più esposto a malattie respiratorie come l’asma, strabismo e retinopatie.
È importante che non solo la madre, ma entrambi i genitori non fumino nel periodo della gravidanza e della crescita del bambino, perché il fumo passivo può predisporre ad asma e problemi cardiaci e respiratori. Inoltre è più probabile che i figli dei fumatori inizino a fumare.
Non esiste un sistema per smettere che vada bene per tutti. Questo perché sono diverse le motivazioni che spingono i fumatori, così come le caratteristiche psicologiche e fisiche, gli stili di vita e il tipo di attività professionale. L’importante è non lasciarsi scoraggiare e ricordarsi che a ogni ricaduta aumentano le probabilità di riuscita.
In questo percorso ci sono diversi strumenti per aiutare le persone che desiderano smettere:
Anche per chi ha già un tumore vale la pena smettere di fumare. Diversi studi hanno dimostrato che la rinuncia alla sigaretta migliora l’andamento della malattia. Sul British Medical Journal è stata pubblicata un’analisi di alcuni ricercatori dell’Università di Birmingham che confronta i risultati di 10 ricerche. Dimostra, in particolare, che le persone a cui viene diagnosticato un cancro al polmone in fase iniziale possono raddoppiare le loro probabilità di sopravvivenza smettendo subito di fumare.
Altre ricerche hanno assodato che il fumo può aumentare gli effetti collaterali di chemio e radioterapia e ridurne l’efficacia, ostacolare la guarigione delle ferite chirurgiche e aumentare il rischio di infezioni. Queste ultime sono soprattutto broncopolmonari e possono essere molto pericolose in un organismo debilitato dalla malattia o in cui le difese immunitarie sono depresse dalle cure.
Infine, continuando a fumare, si alimenta il rischio che, una volta guariti dalla malattia, questa si ripresenti, oppure che si sviluppi un secondo tumore.
Se oggi conosciamo i rischi legati all’abitudine al fumo è anche grazie alla ricerca scientifica, che ha contribuito a dimostrare e a descrivere l’entità e le modalità dei danni in tutto l’organismo, principalmente in relazione allo sviluppo del cancro. Ciò ha spinto il pubblico ad acquisire maggiore consapevolezza al riguardo e i governi a prendere atto del grande impatto sociale del problema. Negli anni sono seguiti provvedimenti restrittivi di vario tipo, dall’aumento delle tasse sulle sigarette alla proibizione del fumo nei locali pubblici e nei posti di lavoro.
La ricerca inoltre ha identificato sistemi sia per aiutare a smettere di fumare, per esempio sviluppando prodotti a rilascio graduale di nicotina e definendo programmi di intervento psicologico, sia per la cura dei danni legati al fumo.
Colpevolizzare chi fuma è quindi inutile: prima di tutto perché l’abitudine alle sigarette, e la dipendenza che ne consegue, in genere è dovuta alla combinazione di diversi fattori ambientali, comportamentali, genetici ed ereditari, e spesso riflette asimmetrie economiche e sociali da tempo radicate nella società. In secondo luogo perché la ricerca rivolta alla prevenzione e alla cura del fumo porta vantaggi a tutta la comunità. Per esempio gli studi sulla predisposizione genetica al fumo contribuiscono ad approfondire la conoscenza del nostro genoma e a valutare come possa influire sul nostro comportamento in senso più esteso.
Ottimizzando la cura delle malattie legate al fumo e migliorando la prevenzione, non aumenta solo la qualità di vita dei fumatori, ma si contribuisce a ridurre le spese del Sistema sanitario nazionale e l’enorme impatto ambientale della filiera del tabacco.
Da molti anni nel mondo della ricerca ci si interroga su una possibile predisposizione ereditaria alla dipendenza dal fumo e diversi studi sembrano confermarlo. Secondo il National Institute on Drug Abuse, il rischio di diventare dipendenti dalla nicotina deriva, in una percentuale compresa tra il 40 per cento e il 75 per cento, dalle caratteristiche dei propri geni. Alcuni geni sono direttamente associati alla dipendenza dalla nicotina, come le varianti del gene CHRNA5, altri sono coinvolti nel suo metabolismo e quindi influiscono sul numero di sigarette consumate, sulle probabilità di smettere e sull’efficacia dei trattamenti. Per esempio la risposta alla vareniclina, farmaco sostitutivo della nicotina, è associata alle varianti dei geni CHRNB2, CHRNA5 e CHRNA4.
Un recente studio i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista Nature ha svolto l’indagine più estesa mai condotta finora sulla predisposizione genetica al fumo e all’alcol, rivelando la presenza di 3.500 varianti del DNA associate a queste abitudini. Analizzando il genoma di 3,4 milioni di persone in Europa, Africa, Asia dell’Est e America, i ricercatori hanno applicato tecniche di Genome-Wide Association Study (GWAS), un sistema computerizzato con cui è possibile individuare correlazioni statistiche tra centinaia di migliaia di variazioni genetiche e uno specifico tratto o malattia. Alla fine di numerose e complesse indagini, è risultato che la presenza di geni legati al consumo abituale di tabacco è associata a comportamenti di dipendenza, a situazioni economiche svantaggiate e alla diagnosi di patologie polmonari. Nonostante questi risultati necessitino di ulteriori studi, questa indagine rappresenta un promettente punto di partenza per lo studio del genoma umano e dei sistemi di prevenzione, sempre più mirati ed efficaci. Identificando in anticipo le persone predisposte si potrebbero evitare numerose patologie e decessi legati al fumo.
Le informazioni presenti in questa pagina non sostituiscono il parere del medico.
Data di pubblicazione: 14 maggio 2024